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Sandra Moretti racconta L’Isola di Heta

Sandra Moretti racconta L’Isola di Heta


Uno spaccato fantasy sulla teoria dei multiversi

Quando Sandra Moretti decide di fare il suo ingresso nel settore letterario-editoriale con lo young adult L’Isola di Heta, varca solo il primo degli innumerevoli multiversi che la sua penna è destinata ad affrontare. È il 2016: Sandra è un’affermata psicologa, con una specializzazione in Psicoterapia e analisi transazionale e un particolare interesse per lo studio dell’età evolutiva. Molti dei suoi pazienti sono bambini e adolescenti, capaci di incredibili acrobazie con le armi più potenti che l’infanzia possiede: la fantasia e l’immaginazione. Forse grazie alla loro influenza, forse seguendo il proprio stesso consiglio di evasione verso fantasiosi mondi autoprodotti, Sandra Moretti partorisce il primo capitolo della trilogia de L’Isola di Heta, che esce per Tabula fati. È l’inizio di un viaggio, che vedrà la storia dell’autrice intrecciarsi a quella della sua protagonista, Thea: entrambe catapultate in una nuova dimensione – il mondo editoriale per Sandra, lo sconosciuto pianeta di Heta per Thea –, le due saranno destinate a farsi strada con successo nell’ignoto e nello sconosciuto. 

A cinque anni di distanza, il viaggio di Thea si è concluso insieme alla trilogia: dopo L’Isola di Heta. Diversi Mondi, uscito nel 2018 dalle scuderie dello stesso editore, è oggi in vendita in tutte le librerie italiane anche Fuoco amico, ultimo atto della saga fantascientifica, disponibile anche sul sito di Tabula fati, Amazon e IBS. È dunque per festeggiare la chiusura del cerchio, che Sandra Moretti compare come ospite d’onore nella quinta puntata di Classic Drive Art, rilasciando un’intervista che rivela aspetti inediti della sua storia e del suo percorso nei panni di scrittrice. 

 

Com’è nato, innanzitutto, il progetto letterario che ha dato adito alla precisissima costruzione del mondo di Heta? L’autrice ha più volte dichiarato come siano stati alcuni amici a convincerla a mettere per iscritto alcuni dei mondi fantastici che, seduta dopo seduta, venivano a colmare lo spazio fertile che la divideva dal divano sul quale si accomodavano i suoi pazienti. Il risultato è stato un mondo parallelo al proprio, nel quale pochissimo è lasciato ai riferimenti autobiografici. «Io per lavoro faccio la psicologa» sorride Sandra Moretti. «Sono più abituata ad ascoltare le vite degli altri che la mia: quando mi sono messa a scrivere mi è venuto più naturale ascoltare i personaggi che metterci del mio». Più sua, forse, la sofisticata operazione di word building che costituisce l’architrave della trilogia: «mi sono divertita a costruire un mondo che avesse delle cose che piacevano a me, che divertivano me. Però nella trama o nella descrizione della psicologia dei personaggi forse ci sono più i miei pazienti che io». 

Facendo perno sulla utilizzatissima, ma sempre affascinante teoria dei multiversi, l’apparato fantascientifico de L’Isola di Heta si riassume nella sua frase d’apertura: «Esistono tanti mondi quanti ne puoi immaginare». È questo il messaggio che Sandra Moretti ha veicolato nella scrittura, forse volendo dimostrare ai suoi giovani clienti che è davvero possibile creare ex nihilo un mondo del tutto nuovo, definendolo dettaglio per dettaglio. «Avendo costruito proprio un universo parallelo» chiarisce Moretti «sarebbe stato uno spreco non creare anche tutto quello che va a caratterizzare un universo e un mondo. Sono partita prendendola alla larga e ho creato proprio il sistema planetario di Heta, quindi il loro Sole che si chiama Reja e tutti i pianeti posizionati nella maniera più verosimile possibile per evitare delle collisioni astrali, e poi sono arrivata all’isola vera e propria e alla sua struttura geografica: è un’enorme Pangea divisa in 12 spicchi con delle lateralizzazione più marine, essendo un’isola, più interne e poi montane».

Fantasia, dunque, ma con un saldo aggancio alla verosimiglianza: le fondamenta della trilogia, spiega Moretti, sposano una teoria un po’ a bolle, che vuole che dopo il Big Bang, questa grande esplosione, si siano profuse tantissime realtà quante ne possiamo metabolizzare. 

«Mi sono appoggiata a degli studi, dalla Teoria delle Stringhe in poi. Leggevo giusto l’altro giorno l’ultima versione di Steven Hawking, che è del 2018, sui multiversi e sul fatto che in realtà non sarebbero infiniti e completamente diversi tra di loro, ma che c’è una ricorsività, una ripetizione. Trattasi di salti dimensionali, la possibilità di viaggiare nello spazio e nel tempo e di arrivare ad altre realtà e ad altre dimensioni. Tant’è che è proprio quello che succede alla protagonista del libro: una terrestre che si trova catapultata in un universo parallelo». Ne risulta il prototipo del romanzo di fantascienza, un cocktail vincente di fantasia e verità scientifica: un libro a molti livelli che trascende l’incastellatura nella categoria degli young adult, aprendosi un raggio di lettura ben più ampio e senza età e dimostrando a grandi e piccini che, dopotutto, non siamo che noi l’unico limite alla nostra fantasia. 

Guarda l’intervista a Sandra Moretti nella quinta puntata di Classic Drive Art

 

                                                                                                                           Valentina Baraldi

Elisa La Manna: arte senza confini

Elisa La Manna: arte senza confini

La pittrice si racconta a Classic Drive Art

 

Elisa La Manna

 

Elisa La MannaPer Elisa La Manna, l’arte non conosce limiti né regole. Che sia con semplice pittura acrilica o con materiali d’eccezione, dipingere per lei è una necessità. Quella di esprimere sé stessa e la propria sensibilità. Stavolta, però, ha scelto Classic Drive Art per raccontare la propria storia. Ospite della quarta puntata della seconda edizione del programma, Elisa La Manna ci espone la sua tecnica artistica. 

«Mi piace anche sperimentare e mescolare varie tecniche insieme» ammette. «Ad esempio, in un dipinto ho usato il vino bianco insieme all’acrilico. Non dava poi tanto colore. Volevo che rimanesse su questa tonalità. Sullo sfondo ho usato prima l’acrilico e poi ho versato il vino sopra».

Elisa La MannaIl vino, però, non è il suo solo asso nella manica. Mostra con orgoglio molti dei suoi work in progress, ognuno dei quali sfrutta tecniche e materiali alternativi per creare suggestivi effetti visivi. La sua specialità è l’acrilico – «mi trovo meglio, asciuga più in fretta e non ha odore» – ma è abituata a non dare freno alla sua fantasia. Dal vino all’oro in foglia, dal caffè fino alla resina epossidica e al collage: per Elisa La Manna sono tutti strumenti per realizzare la sua visione del mondo. Visione che, quando non si canalizza in particolarissimi ritratti, si esplica in soggetti surreali, dal sapore onirico. 

«Io ho sempre disegnato, già da piccolina, ho fatto tre anni l’artistico, poi ho cambiato genere per un po’ di anni e poi sono ritornata» riassume modestamente La Manna. I suoi traguardi, però, meriterebbero una narrazione ben più dettagliata. Una volta conseguito il diploma dell’Istituto d’arte Benedetto Alfieri, frequentato dal 2008 al 2011, infatti, Elisa La Manna si è allontana dal genere.  

È solo nel 2020 che il suo estro sceglie nuovamente la pittura per esprimersi, inaugurando una carriera parallela su commissione. Nello stesso anno, ha partecipato alla seconda edizione del contest d’arte “Dantebus Bazart” e al “Luxemburg Art Prize 2020”. Quest’anno, invece, i suoi dipinti hanno trovato posto al concorso “Arte e Artisti” in onore di Rembrandt e alla “Galleria virtuale Margutta”, oltre che alle edizioni successive del Dantebus Bazart e del Luxemburg Art Prize

 Valentina Baraldi

 

Tenuta Principe Alberico: un’oasi nel cuore di Roma

Tenuta Principe Alberico: un’oasi nel cuore di Roma

Alessia Antinori, Riccardo Nocera e Cristina Bowerman a Classic Drive Art

Il retaggio di Alessia Antinori e delle sue due sorelle è di sangue blu: nipoti di Alberico Boncompagni Ludovisi, Principe di Venosa e nobile romano doc, hanno infatti ereditato parte del patrimonio castro-culturale della Città Eterna. Nel loro caso, si tratta di un’azienda agricola. Testimone silenzioso di generazioni  di romani, la tenuta è passata di mano in mano per decenni: un premio e una responsabilità per i posteri. Ultima a ricevere orgogliosamente quest’onere, è proprio Alessia Antinori. 

È lei che racconta la storia di Tenuta Principe Alberico davanti alle telecamere di Classic Drive Art. «Quest’azienda che è dentro il Comune di Roma, si trova sull’Appia antica» al centro di un’oasi nella quale il tempo sembra rifiutarsi di scorrere. E nel quale la presenza del Principe è ancora tangibile, per Alessia e le sue sorelle. «È un posto speciale perché si sente la sua filosofia, il suo attaccamento alla terra e lui ce l’ha avuto fin dall’inizio. Credeva nella terra e credeva soprattutto nel biologico. Questa è un’azienda unica: pur essendo dentro il Comune di Roma, ha più di 50-60 anni di terra biologica». 

Tenuta Principe Alberico: Vitigni di premio nel cuore di Roma

Paradiso nascosto in seno a una delle metropoli più caotiche d’Italia, dunque, la Tenuta Principe Alberico possiede dei vitigni che normalmente crescono solo sui colli del Lazio. Fu proprio Alberico, racconta Alessia Antinori, a impiantarvi viti di pregio come Cabernet, Merlot e Sémillon, oltre a varietà autoctone come la Malvasia

«Lui si innamorò del vino tramite il suo mentore, il suo amico Tancredi Biondi Santi, che lo incoraggiò a piantare queste varietà, che chiaramente erano più bordolesi per la maggior parte. Fu uno dei primi a piantarle in Italia e non coltivò soltanto le viti, ma impiantò anche ulivi, produceva il miele, aveva il suo orto e produceva tantissime varietà di pomodori. Poi aveva le sue mucche, la sua farina e soprattutto il suo lievito madre, che ha tramandato a mia sorella e con il quale abbiamo continuato a panificare… Quindi, insomma, Tenuta Principe Alberico era ed è tuttora un’azienda biologica a tutto tondo, a 360°».

L’Alberico Bianco 2016

In un’azienda a tutto tondo, ognuno deve immancabilmente fare la propria parte. E il contributo di Alessia Antinori riguarda proprio il vino. Da enologa esperta, presenta a Classic Drive Art l’Alberico Bianco annata 2016. Come lascia immaginare il nome, questo «era il vino a cui forse Alberico Boncompagni Ludovisi più credeva». 

«Lui piantò questa varietà del Sémillon negli anni ’50, dentro Roma. All’epoca, era una varietà molto innovativa, tipica bordolese, ottima anche per produrre vini butilizzati, quindi vini più dolci. Lui ci credette e volle piantarla in azienda. Quindi noi abbiamo voluto dare, come per tutti gli altri progetti, una continuità di quello che lui produceva. Abbiamo anche avuto la fortuna di ritrovare la vigna storica, cioè la vigna originale che ha più di 50-60 anni: abbiamo deciso che da quella avremmo fatto una propagazione e una selezione massale della propagazione, per un totale di 19 ettari, di cui una parte è di Sémillon. Oggi non c’è nessun altro produttore in Italia che produce un Sémillon in purezza, cioè un 100% Sémillon». 

Riccardo Nocera e Cristina Bowerman: come bere (e con cosa) l’Alberico Bianco 2016

Si tratta, infatti, di un vino che viene solitamente tagliato con altre varietà, che ne spezzano la purezza. Non è il caso dell’Alberico del 2016, un’annata particolarmente calda, frutto di una lunga fermentazione in barrique di rovere e, infine, di 18 mesi in bottiglia. Ce lo spiega Riccardo Nocera, sommelier del team della Tenuta Principe Alberico. «È un vino bianco di grande struttura, fatto con uve Sémillon: un bianco che comunque al naso si presenta veramente con dei profumi molto importanti, una bella nota minerale ed un bel fondo sapido. Un vino che nasce in un terreno che è principalmente di origine di cenere vulcanica e di pozzolana, quindi ovviamente la struttura minerale si sente tantissimo al naso e la complessità olfattiva lo rende un bianco di grande struttura e abbinabile ad una vasta gamma di piatti».

È d’accordo Cristina Bowerman, chef italiana da una stella Michelin e tre forchette Gambero Rosso, super ospite di Classic Drive Art, che dimostra l’alta versatilità dell’Alberico Bianco 2016 portando uno dei piatti del menù di Glass Hostaria, il suo ristorante aperto a Trastevere. «Abbiamo scelto un classico di Glass che sono i “ravioli del plin”, ripieni di amatriciana: io li chiamo “ravioli Arlecchino”» esordisce. 

Come molti piatti della cucina di Cristina, infatti, anche questo celebra la tradizione riscrivendone le regole. «Se dovessimo rappresentare in un grafico l’amatriciana, la carbonara o il cacio e pepe, formerebbero quello che io chiamo flatline: è lo stesso identico sapore dal primo all’ultimo boccone. Quindi mi è venuta questa idea di “splittare” i ravioli. All’interno di alcuni di essi, c’è l’amatriciana pura senza formaggio, in altri invece una fonduta cremosa di pecorino, per dare una diversità di boccone a seconda di quello che si mangia, completando il sapore dell’amatriciana. Il guanciale croccante, poi, dà una differenza di “textura” che per me è come se fosse un altro sapore. Si crea così un’onda di sapori e consistenze diverse» conclude Bowerman.

 Valentina Baraldi

Guardate l’intervista presente nella quarta puntata di Classic Drive Art

 

Alessandro Bellomarini: nostalgia tra passato e presente

Alessandro Bellomarini: nostalgia tra passato e presente

Lo scrittore presenta il romanzo I giorni che ho perso a Classic Drive Art

 

Con il libro I giorni che ho perso, Alessandro Bellomarini guarda con nostalgia a un’epoca passata. Storia di amicizia e di fratellanza, il romanzo racconta di Giony ed Ermes, vittime dei propri trent’anni e di due vite monotone. Sarà la morte di una vecchia amica, Morena, a unire i loro destini e donare nuova emozione alle loro esistenze. 

BellomariniPubblicato da Porto Seguro Editore, I giorni che ho perso è dunque in bilico tra un passato già semiavvolto nel torpore della memoria e un presente da cui evadere: da una parte le emozioni dell’estate del 2006, dall’altra l’inverno 2019, troppo grigio in attesa di nuovi colori. 

«È un libro con un’alta dose di nostalgia» ammette Alessandro Bellomarini a Classic Drive Art. Classe 1988, scrittore, poeta, sceneggiatore e produttore esecutivo: al suo attivo, Bellomarini ha già diverse raccolte di poesie, sceneggiature e commedie teatrali. I giorni che ho perso, però, è per lui un romanzo particolarmente sentito. 

Quello di Morena, infatti, è un personaggio che ricalca una vecchia conoscenza dell’autore. «Ha un nome diverso nella realtà, ma è esistita veramente: è una ragazza che ho conosciuto, con cui avevo un’amicizia e che, purtroppo, è morta. Ho voluto farle questo omaggio postumo».

La storia si snoda tra la disincantata periferia di Roma e due città dal fascino tutto europeo, Siviglia e Venezia. È quest’ultima, infatti, a comparire in copertina: San Marco svetta dietro a un motorino Ciao, ritratto in colori pastello.

«Ho scelto Venezia perché è una città a cui sono molto legato» confessa Bellomarini. «Volevo mettere questo Ciao perché, essendo un elemento nostalgia, mi dava un effetto di antico. Nella storia, questo Ciao viene da un ragazzo di colore che si chiama Pier, che bazzica per Venezia, vivendo come tatuatore abusivo: sarà lui a vedere illecitamente questo motorino che poi presterà a Morena e ai ragazzi per fare un giro tra le calle».

I giorni che ho perso ha già iniziato il suo tour promozionale. Tra firmacopie ed eventi di lettura, il libro di Alessandro Bellomarini ha viaggiato da Roma alla Toscana, all’Umbria, terminando il suo percorso proprio a Venezia. Oggi, è disponibile su tutti i principali siti di distribuzione.

 Valentina Baraldi

 

A scuola non si respira più: Margherita Politi racconta la scuola pre e post Covid

 

A scuola non si respira più: Margherita Politi racconta la scuola pre e post Covid

L’autrice ospite della quarta puntata di Classic Drive Art

A scuola non si respira più: un titolo e, prima ancora, una constatazione che Margherita Politi ha voluto mettere nero su bianco nel marzo del 2020. Ancora non poteva sapere che, di lì a poche settimane, la sua si sarebbe rivelata una vera e propria premonizione. La “fame d’aria” innescata dal Covid è diventata una realtà, e anche la scuola – come tutti – ne ha pagato il prezzo. 

A mesi di distanza, Margherita Politi ha scelto di presentare il suo libro a Classic Drive Art. «A scuola non si respira più è un titolo, in effetti, un po’ inquietante in questo momento storico» ammette. «Non avrei mai pensato che poi non si respirasse veramente più». 

Insegnante, madre e istruttrice di yoga, infatti, Margherita Politi sa bene quanto sia fondamentale saper respirare. «La nostra vita dipende dal nostro respiro» spiega. «Dire che “a scuola non si respira più”, perciò, vuol dire denunciare che il sistema dell’istruzione italiana è veramente decaduto rispetto agli scorsi decenni».

Certo, in un mondo veloce, globalizzato e frenetico come quello di oggi, sedere a un banco scolastico è difficile tanto quanto stare dietro a una cattedra. Ma è proprio la scuola il punto nevralgico su cui si deve intervenire per garantire un futuro meno complesso. La pandemia mondiale non ha fatto altro che sottolinearlo: l’istruzione non deve e non può essere sacrificata. 

Quello di Margherita Politi, dunque, è un appello rivolto agli insegnati, ai genitori e agli stessi ragazzi. Analizzando il sistema dell’istruzione italiana, soprattutto alla luce della situazione post-Covid, A scuola non si respira più è il tentativo di risvegliare le coscienze e ridare alla scuola la centralità che le spetta. 

L’invito rivolto al corpo insegnati è semplice: occorre respirare… a scuola. Dare nuovo ossigeno alle metodologie didattiche, crearne di nuove e riprogrammare il trasferimento delle competenze in base alle trasformazioni in corso. 

Non tutte le colpe, però, devono essere imputate alla pandemia. «Anche prima del Covid a scuola c’era una grande sofferenza, sia nei ragazzi, che negli insegnanti: il titolo, allora, ha volutamente riguardato il respiro, perché il respiro ci dà la misura del nostro benessere o del nostro malessere». A scuola non si respira più può essere così utilizzato come metro di paragone tra sistema scolastico pre e post Covid, fungendo da specchio delle mancanze che occorre sanare. 

Una lettura che, forse, permetterà a molti di cogliere nella pandemia l’occasione giusta per cambiare qualcosa. «Il libro è rivolto innanzitutto ai docenti, perché possano mettersi insieme e cercare di creare un lavoro d’équipe che attualmente manca» ha dichiarato infatti Margherita Politi. «Ma devo ammettere però che il saggio è soprattutto rivolto ai politici, a coloro che hanno davvero il potere di cambiare le cose. Troppo spesso gli insegnanti sono schiacciati da una burocrazia imperante, che non permette più loro di educare».

 Valentina Baraldi

Guarda l’intervista a Margherita Politi nella quarta puntata di Classic Drive Art

 

Ômina Romana e il Viognier Ars Magna 2018

Ômina Romana e il Viognier Ars Magna 2018

Vini, tradizione e romanità a Classic Drive Art

Nel cuore del Lazio, sorge Ômina Romana, azienda vinicola a conduzione familiare che ha fatto dell’eccellenza il suo mantra. A raccontarla a Classic Drive Art, ci sono Katharina e Simone, ospiti della terza puntata del programma. 

 

«Abbiamo scoperto il terreno nel 2007» esordisce Katharina, responsabile di Ômina Romana. «Poi abbiamo iniziato a fare delle indagini, proprio per capire il terreno e dove ci trovavamo».

«La nostra visione» specifica «è stata sempre fare vini di altissima qualità». Ômina Romana è dunque il risultato di un’attenta ricerca, su un territorio che – però – già di per sé è ottimo. Nella culla dell’Impero Romano, infatti, si nasconde una delle terre più fertili per la coltivazione vinicola. Scoperto il sito, infatti, a Katharina e Simone è bastato il consulto di un’agronoma di fiducia per ultimare le indagini sul suolo, con l’assistenza dell’Università di Geisenheim, in Germania. Il risultato era lampante: «questo è un territorio vocatissimo per la viticoltura».

Proprio per rispettare il legame con il territorio – e, insieme ad esso, con la sua storia millenaria – Ômina Romana ha deciso di omaggiare la romanità sulle etichette stesse dei suoi prodotti. I vini Ômina Romana, infatti, hanno dei nomi romani. «In queste vigne, già duemila anni fa, gli Etruschi e poi i Romani hanno coltivato la vite ed hanno fatto il vino, esportandolo poi in tutta l’Europa» spiega Katharina.  Un legame con l’antichità che si iscrive anche nel nome stesso dell’azienda: Ômina Romana, infatti, «è formato da due parole latine: “Ômina” da “Ôme”, il buon presagio, “Ômina” plurale». «Così facciamo un po’il ponte tra il passato e il futuro». 

 

Insieme al nome, sull’etichetta compare il logo di Ômina Romana: una fenice. «Tu adesso ti chiederai: “Ma perché questi hanno scelto la Fenice?”. La Fenice l’abbiamo scelta per due ragioni: prima ragione perché siamo terreno vulcanico e sappiamo tutti che la Fenice sorge dalle ceneri. Il secondo motivo, invece, è che noi vogliamo portare o far rinascere questa tradizione di viticoltura antica romana, adesso come nel futuro. La Fenice rinasce come anche la viticoltura di questo territorio». 

Uno dei prodotti di punta di questa complessa operazione è il Viognier Ars Magna 2018. Ce ne parla Simone, l’enologo di Ômina Romana. Espressione migliore della varietà ricreata nelle vigne dell’azienda, l’annata del 2018 ha «una forte presenza di aromi molto freschi e fruttati che esprimono il territorio: c’è il connubio tra freschezza, struttura ed eleganza». 

Un vitigno molto particolare, dunque, ma in grado di sposarsi perfettamente con il buon cibo della zona. A dimostracelo è uno degli chef stellati più famosi d’Europa: Heinz Beck, tedesco di nascita e italiano d’adozione, nonché titolare del ristorante La Pergola, premiato con tre stelle Michelin. A Classic Drive Art, propone uno dei suoi piatti forti da abbinare al Viognier Ars Magna 2018 di Ômina Romana. 

«Io ho pensato di abbinare a questo vino un antipasto, che abbiamo fatto qualche anno fa» esordisce. Si tratta di una elaborata composizione di crostacei e peperoni, con cotture e consistenze diverse. «L’abbinamento del vino l’ho fatto per la sua leggera acidità. Il 2018, infatti, ha un po’ di sentore di ananas e di agrumi. Abbiamo quella morbidezza meravigliosa dovuta all’invecchiamento nella botte e, per questa morbidezza, abbiamo il peperone crudo, che è molto più erbaceo, la cipolla in carpione ed il cappero, che sta equilibrando benissimo la morbidezza, a fare un bel contrappunto alla morbidezza. Abbiamo una meravigliosa sapidità e, perciò, abbiamo il crostaceo, che è un po’ dolce e un po’ aromatico. Infine, c’è anche un piccolo trucco sul piatto: è la croccantezza della cialda di riso che mettiamo sopra, nella quale cialda, nei buchi, mettiamo poi una serie di erbe aromatiche che ci aiutano ad apprezzare ancora meglio questo vino fatto con così tanta cura».

Guardate l’intervista a Katharina e Simone di Ômina Romana nella terza puntata di Classic Drive art
Valentina Baraldi