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Honda Nighthawk 450

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BMW R75/5 passo corto

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NOME: Giuseppe

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REGIONE: ABRUZZO

BSA Rocket 3 750: la moto di Flash Gordon

L’affascinante BSA Rocket 3 750, l’ultima superba motocicletta costruita dalla Casa di Birmingham, era capace di offrire prestazioni di altissimo rilievo: un vero missile! Ripercorriamo insieme la storia di una delle tricilindriche più famose al mondo.

LA STORIA
La grintosa Rocket 3 venne prodotta in 5.897 esemplari in poco meno di quattro anni, ma il suo progetto fu riuscitissimo dal punto di vista tecnico. Il dominio dell’industria motociclistica inglese, durante la metà degli anni Sessanta, provocò una non proficua cristallizzazione sui modelli classici ed un cullarsi sugli allori già guadagnati in anni di semi-perfezione su due ruote. Bert Hopwood e Doug Hele, due valenti tecnici britannici disegnarono nel 1961, in segreto, un propulsore tricilindrico di 750 cc: un cilindro in più ed una cilindrata superiore rispetto ai classici canoni inglesi di quel periodo. Con l’avvento dell’Honda CB 750 Four, il direttore della BSA Group, Harry Sturgeon, preoccupato dal possibile successo della motocicletta nipponica sul mercato mondiale, decise di tradurre in pratica il progetto della tre cilindri.

Per ultimare il progetto venne incaricata una ditta esterna di design, la Ogle, nota per le carrozzerie delle automobili Reliant. Il lavoro della Ogle, però, portò all’aumento di 12 kg del peso della due ruote e ad un ritardo nell’industrializzazione del progetto, che arrivò in catena di montaggio quando ormai sarebbero state imminenti le consegne della quadricilindrica Honda 750.
Le difficoltà interne alla BSA, sul finire degli anni Sessanta del secolo appena trascorso, penalizzarono ulteriormente la produzione della bella tre cilindri, costruita dal Settembre del 1968 alla metà del 1972 in contemporanea alla sorella Triumph Trident, rispetto alla quale le differenze più evidenti riguardarono: il motore, dotato di cilindri inclinati in avanti di 15º, invece che verticali come per la Triumph ed il telaio a doppia culla anziché monoculla.
Nel Dicembre del 1970 venne presentato il model year 1971, completamente rivisto nella linea: la nuova versione montò un serbatoio tondeggiante e per la maggior parte cromato, come i parafanghi e le due marmitte “lanciarazzi”, che furono sostituite da comuni tromboni; anche la forcella venne modificata assumendo l’aspetto di una Ceriani; il freno anteriore era ancora a tamburo a doppia camma, ma con i mozzi conici; il motore perse un po’ di quella grinta che denotava quello della prima serie anche se, in compenso, la moto venne dotata, a richiesta, di un cambio a 5 marce. Risultava inoltre molto bella, ma fu tardi, purtroppo, per riconquistare i favori del crudele mercato.

La grintosa inglesina tricilindrica corse per ben due stagioni, insieme alla gemella Triumph Trident, nelle gare della F 750. Con Dick Mann si aggiudicò la 200 Miglia di Daytona ed il Campionato americano del 1971; fra i suoi piloti vi fu anche il grande Mike Hailwood. Nel 1972, l’ultimo modello della Rocket 3 venne riprogettato il più possibile fedele alle origini, con un gradevole mix tra datato e nuovo: il serbatoio tornò ad avere forma squadrata, la sella perse il tipico codino ed i freni, sempre gli stessi, risultarono, come sempre, nettamente insufficienti rispetto alle prestazioni della motocicletta. Alla fine del 1972 si chiuse la breve, travagliata e sfortunata esistenza della Rocket 3.

LA TECNICA
La grintosa tricilindrica inglese conservò la classica tecnica dei motori inglesi (aste e bilancieri, carter secco e cambio in semiblocco), ma ruppe nettamente con il passato quanto alla sua fisionomia: abbandonava infatti le snelle ed eleganti rotondità in favore linee più tese e voluminose. Il mercato U.S.A., però, bocciò tali innovazioni estetiche, tanto da obbligare la BSA ad un repentino ritorno al passato. La BSA Rocket 3 venne apprezzata in particolare per le sue prestazioni che, per l’epoca, furono davvero entusiasmanti: quasi 200 km/h e 58 CV a 7.650 giri.

La scelta di adottare un propulsore tricilindrico ebbe precise ragioni: esso girava, per propria natura, più rotondo ed equilibrato rispetto al bicilindrico ed aveva un funzionamento uniforme, con pochissime vibrazioni e con la disposizione a 120º dei bottoni di manovella. Il propulsore fu assemblato tramite: due alberi a camme posti l’uno davanti e l’altro dietro i cilindri, e che controllavano, tramite l’ausilio di aste e bilancieri, lo scarico e l’aspirazione; sul carter motore, sezionato in tre pezzi, venne montato il blocco dei cilindri inclinato di 15º, con le canne in ghisa speciale e la testa in un solo pezzo in lega leggera, come i cilindri stessi. A favorire la snellezza del motore (solo 7,6 cm più largo del bicilindrico della Triumph Bonneville) furono solamente i contrappesi di bilanciatura e non i volani ed inoltre, per assicurare un’ottima lubrificazione venne montata una pompa ad ingranaggi, capace di spingere il lubrificante ad una velocità tre volte e mezzo superiore a quella dei bicilindrici coevi ed il radiatore fu posto in posizione che ben facilitava il raffreddamento.

Il carter era a secco per cui l’olio stazionava in un serbatoio da 3 litri nascosto sotto la sella, ma ottimamente raggiungibile grazie ad un bocchettone esterno; la parte posteriore del carter accoglieva invece la scatola del cambio in blocco con il motore, ma era separato dalla camera di manovella: soluzione chiamata “semiblocco”. La frizione Borg & Beck era di tipo automobilistico, strettamente derivata da quella della Mini Cooper, monodisco a secco e dotata di parastrappi in gomma, contenuta in un’apposita scatola sulla destra per isolarla dall’olio della primaria: essa è a catena triplex, con apposito tenditore registrabile dall’esterno. L’alimentazione del potente tricilindrico venne affidata a tre carburatori Amal Concentric da 27 mm con collettori di aspirazione in gomma e filtro dell’aria a cartuccia e comandati da un unico cavo che agiva su un sistema di leveraggi per la sincronizzazione. L’impianto frenante risultò scarso rispetto al contesto generale di una moto che aveva una velocità di punta di 200 km/h e pesante circa 220 kg: il freno anteriore era a tamburo centrale da 203 mm a doppia camma, mentre posteriormente la due ruote era dotata di un vetusto tamburo laterale da 177 mm.

L’impianto di scarico, dotato di una buona silenziosità, poteva definirsi un “tre-in-quattro-in-due” perché il collettore che usciva dal cilindro centrale si sdoppiava immediatamente in modo tale da far risultare, per ogni lato, due tubi che convergevano nel silenziatore; le marmitte furono soprannominate “fucili spaziali di Flash Gordon” proprio per i sei tubetti terminali corti, che sembravano puntare minacciosamente chi riusciva a starle dietro. L’impianto elettrico era a 12 Volt, con il generatore insolitamente montato sulla destra dell’albero motore. Per ogni singolo cilindro erano tre le coppie di contatti a permettere una fine regolazione dell’accensione: esse venivano comandate da un’unica camma azionata a sua volta dall’estremità dell’albero a camme di scarico. Per un ottimale raffreddamento venne posto sotto il faro il diodo Zener, avente anche la funzione di raddrizzatore di corrente.

COME SI PRESENTAVA
Nell’Ottobre del 1967 due Rocket 3 vennero portate in America in segreto in occasione di una spedizione comandata da Doug Hele: lo scopo era quello di provare le motociclette britanniche in ogni condizione possibile, e cioè: sulle lunghe autostrade che attraversavano il deserto, sui contorti percorsi di montagna e, addirittura, nel caldo asfissiante del Messico e di testarle rispetto ai loro consumi, alle possibile rotture, inconvenienti e prestazioni. Le moto percorsero oltre 2.000 miglia e si rivelarono docili e potenti. L’anno dopo, però, all’arrivo dei primi rapporti dei concessionari BSA, ogni entusiasmo evaporò: non piacevano esteticamente alla loro clientela, oltre al loro eccessivo costo rispetto alle cugine nipponiche, dotate di un cilindro in più, avviamento elettrico, 5 rapporti e del freno a disco anteriore.
L’errore più grande del gruppo Triumph-BSA fu quello di aver mutato totalmente l’estetica delle nuove 750 rispetto alle classiche bicilindriche della tradizione anglosassone. Gli esemplari destinati al mercato europeo furono dotati di un manubrio più basso e stretto rispetto a quello delle unità prodotte per gli U.S.A.

La Rocket 3, se ben a punto, era facilissima da avviare ed offriva prestazioni notevoli con un allungo incredibile. La meccanica era comunque molto delicata e bisognosa di frequenti attenzioni a causa delle eccessive tolleranze e delle fastidiose perdite d’olio, anche se molti difetti di un tempo risultano oggi decisamente rimediabili; l’affidabilità rimane tuttora un punctum dolens, oltre alla difficoltà di percorrere più di 12/14 km con un litro di carburante. Il manettino dell’aria, fissato sul carburatore di destra, ma il suo uso venne ridotto al minimo: per le partenze a freddo, infatti, bastava invasare bene i carburatori finché non fosse fuoriuscita un po’di benzina.
La Rocket 3 seconda serie aveva ancora un piccolo difetto, ovvero la capacità del serbatoio ridotta ad 8 litri, tale da regalare alla due ruote un’autonomia decisamente insufficiente: problema non del tutto marginale proprio perché la tricilindrica era una veloce tourer. Bella, ormai rara e gustosa per la sua potenza, la Rocket 3 si rivela oggi decisamente godibile e apprezzatissima da nostalgici collezionisti di tutto il mondo, pronti a pagarla a peso d’oro pur di averla nel proprio box, in compagnia di altri gioielli d’epoca a due e quattro ruote.

Autore: Pier Paolo Fraddosio

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La storia della Moto Guzzi Le Mans: l’eccellenza della sportività

La saga della fortunatissima famiglia Le Mans, che prende il nome da un comune francese della Loira, ospite di uno dei più famosi circuiti al mondo suo omonimo, ha inizio con la capostipite V 850 Le Mans, in occasione del Salone del Ciclo e Motociclo di Milano nel novembre del 1975, derivata da un prototipo, apparso nel 1973, ma mai presentato sul mercato mondiale.
La mamma di tutte le Le Mans è stata la gloriosa Moto Guzzi V7 Sport del 1971: prima vera e sportivissima bicilindrica mandelliana a V di 90º di 750 cc. Ecco la storia della Le Mans, serie per serie.

PRIMA SERIE
La Moto Guzzi Le Mans prima serie è una motocicletta robusta e velocissima, capace di battere anche la concorrenza più ostinata: una vera sportiva italiana in puro stile anni Settanta, ma molto attuale nella sua fisionomia. Il suo possente propulsore bicilindrico a V di 90º, direttamente derivato dalla V7 Sport del 1971, è dotato di canne dei cilindri in ghisa ed i suoi due cuori pulsanti sono i famosi Dell’Orto PHF 36 B con pompa di ripresa. Lo scheletro della grintosa Moto Guzzi è un traliccio in acciaio a doppia culla scomponibile, progettato dal celebre Lino Tonti e già sperimentato, con ampio successo, sulla V7 Sport.

La Le Mans 850 è stata la prima motocicletta sportiva di Mandello ad adottare, come già sulle V 1000 G5 ed Idro-convert, il sistema di frenata integrale a tre dischi. Le sue prestazioni venivano spesso incrementate da un kit da competizione fornito, a richiesta, dalla Casa madre e completo di due carburatori Dell’Orto da 40 mm, scorbutici per l’uso quotidiano, ma molto entusiasmanti. La prima serie, l’unica dotata di faro tondo e la strumentazione minimale, è la più ambita dai collezionisti di tutto il mondo, la più rara, soprattutto nella primissima versione, quella con il fanale posteriore arrotondato.
Le colorazioni disponibili erano rosso-nero e pearly blue-nero.

SECONDA SERIE
A distanza di tre anni dalla presentazione della Le Mans prima serie, la Moto Guzzi propone, nel 1978, la Le Mans II, caratterizzata da una particolare carenatura che richiama quella della quale è dotata la coeva turistica V 1000 SP, con spoilers assicurati ai lati del propulsore, i cilindri del quale svettano imponenti. Tutto ciò però non offre vantaggi concreti in tema di aerodinamica, penalizzando nettamente l’assetto di guida ed il comportamento della motocicletta sul veloce.
L’impianto frenante, rispetto alla prima serie, subisce alcune variazioni: l’aggiunta di un ripartitore di carico e lo spostamento di entrambe le pinze Brembo, che mordono i due dischi anteriori in ghisa, dietro gli steli della forcella.

Tra gli optionals del Le Mans II figurava un particolare tipo di cambio a rapporti ravvicinati a “denti dritti” o “zanne dritte”. Le misure degli pneumatici sono le stesse di quelli che equipaggiano la prima serie, ovvero: anteriormente da 100/90 H-18″ e posteriormente da 110/90 H-18″. Le colorazioni disponibili all’epoca erano la classica rosso-nera e la bianca-nera: pochi esemplari furono prodotti, per l’esportazione, con una livrea nera-oro, con cerchi oro.
La Le Mans II è una valida alternativa alla prima serie: è dotata della stessa architettura tecnico/estetica, ma non conserva l’innegabile, grande fascino di quest’ultima.
Molti appassionati la rendono, spogliandola a dovere degli orpelli plasticosi, molto simile alla prima vera Le Mans, godendo delle sensazioni che l’aggressiva due ruote regala loro.

TERZA SERIE
La Moto Guzzi Le Mans III è invece apparsa sul finire del 1981, profondamente rinnovata rispetto alle prime due serie, sia dal punto di vista tecnico, che da quello meramente estetico.
Il propulsore presenta teste “quadre” , non più “tonde” delle quali erano dotate le prime due serie della velocissima due ruote e le canne dei cilindri al nigusil. Il motore della Le Mans III è stato il primo propulsore italiano ad essere costruito secondo le norme anti-inquinamento dettate dagli Stati Uniti d’America: ciò si traduce però in una leggera diminuzione delle prestazioni della motocicletta.

Oltre alla possibilità di equipaggiare la sportiva bicilindrica con il cambio a “denti dritti”, vi era all’epoca una vasta scelta di coppie coniche per modificare i rapporti di trasmissione.
La carenatura è ora sensibilmente ridotta e più spigolosa e le colorazioni disponibili: il classico rosso-nero, il bianco-nero ed il nuovo, ma poco diffuso grigio metallizzato-nero.
La III è una motocicletta che molti collezionisti/fruitori preferiscono alle prime due serie, sia perché è leggermente più comoda della prima e meno carica di carene della seconda, sia perché ha una linea meno retrò: è diversamente sportiva.

QUARTA SERIE
La quarta serie del Le Mans, presentata al Salone di Milano nel settembre 1984, è stata oggetto di un viscerale cambiamento: la cilindrata viene portata a 1000 cc e la fisionomia profondamente rinnovata. Il motore è stato portato a 948,8 cc ed è capace di sviluppare una potenza di ben 81 CV a 7000 giri. È la prima volta che su una Moto Guzzi sportiva viene adottata una ruota anteriore da 16″, con conseguente modifica all’avantreno e la carrozzeria è stata completamente rivista: ha una linea più filante, nuove fiancatine incorporanti il parafango posteriore, uno spoiler aggiuntivo sotto la coppa dell’olio ed un cupolino leggermente diverso dal quello della Le Mans III. Gli scarichi sono completamente neri, dai collettori fino alle marmitte comprese e la livrea è rosso Moto Guzzi.

La forcella è a gas, completa di equilibratore e gli ammortizzatori posteriori di serie sono gli sportivissimi Koni a molla esterna nera; gli pneumatici sono tubeless e sopportano un peso di 215 kg, ruotando fino a 220 km/h. Nel 1986 la Le Mans 1000 subisce un semplice aggiornamento estetico: viene verniciato di nero anche tutto il blocco motore/cambio, la livrea diventa bicolore bianca-rossa, la sella rossa e le decalco mutano.

Nel 1987 viene preparata una nuova versione della Le Mans 1000 che ricorda cromaticamente quella del 1984. Le principali differenze tra le due sono: il ritorno alla ruota anteriore da 18″, la dotazione di una nuova carenatura anteriore e laterale della quale fa parte un cupolino più esteso e fisso, non solidale ai movimenti del manubrio ed il gruppo propulsore è ritornato nuovamente color alluminio. Sono rimaste invariate invece le prestazioni rispetto alle due versioni precedenti.
L’ultimissima versione del Le Mans 1000, modificata nella sua sola parte cromatica, presenta una livrea tricolore rossa-nera-bianca, che la rendeva, all’epoca, più sportiva ed accattivante. Quest’ultima è rimasta in produzione fino al 1993.
La Le Mans 1000, nelle sue varie versioni, non incontra il favore ed i gusti degli appassionati, tranne che per qualche piccola eccezione: il vero Le Mans, a detta dei collezionisti, è il primo, quello per il quale si lascia il cuore.

Guidare una Le Mans sul rettilineo è come cavalcare un purosangue da corsa al galoppo sfrenato, mentre sul misto è assimilabile ad un ballo sensuale con una bella ragazza, durante il quale lei si fa condurre, mentre si avverte il suo respiro carico di emozione: la Moto Guzzi Le Mans corre su un binario con i suoi Lafranconi Riservato Competizione, ha una tenuta di strada invidiabile, un sapore di storia vissuta ed il profumo della vera passione italiana.

Autore: Pier Paolo Fraddosio

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Vendo, causa inutilizzo, MERCEDES BENZ 280 SE del 1973. La vettura, proveniente da collezione privata, è interamente originale ed in perfetto stato di conservazione, in quanto sempre tenuta in garage. Manutenzione periodica effettuata presso centri autorizzati Mercedes Benz Italia (verificabile). Iscritta presso Registro Italiano Mercedes ed altresì già omologata ASI, pertanto gode di benefici assicurativi e fiscali.L\’autovettura ha 173.578 KM originali, con intera revisione meccanica effettuata a 150.000KM.

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