Settembre 1972, al Salone di Colonia arriva la Z1 900: la maxi più potente mai prodotta
La Z1 900 fu un vero e proprio fulmine a ciel sereno, che portò gli appassionati delle moto dagli occhi a mandorla a preferire il fenomeno Kawasaki al posto di quello Honda, fino ad allora pressoché imbattuto, quanto a novità tecnologica e potenza. Quest’ultima ne rappresenterà la rivale storica, pur avendo una cilindrata più bassa.
I cavalli della nuovissima “astronave” quadricilindrica bialbero erano ben 82, associati ad un’ottima ciclistica. La sua fisionomia decisamente nuova, sportiva e nello stesso tempo elegante si mostrava filante grazie anche al suo particolare codino ed al terminale di scarico “quattro in quattro”. Fu prodotta in 115.000 unità, la maggior parte delle quali vendute negli U.S.A.
LA STORIA
Fino all’avvento della potente Z1, la Kawasaki era conosciuta ed apprezzata essenzialmente per la produzione di motociclette 2 tempi di piccola e media cilindrata, di buona potenza, ma di scarsa affidabilità ciclistica, visto che la 500 cc, ad esempio, è passata alla storia come: la “bara ambulante” o la “fabbrica delle vedove”.
Nell’autunno del 1968, dopo che la Casa di Tokyo rilevò la Meguro, una delle più antiche Case motociclistiche giapponesi specializzata nella costruzione di motori a 4 tempi e dopo che fu creato, all’interno dell’azienda, un gruppo di tecnici coordinato e diretto dal valente ingegner Gyoichi Inamura, cominciarono i lavori del nuovissimo progetto di una 4 cilindri 750 cc, che sarebbe servita a dare una “forte gomitata” alle maxi moto inglesi ed italiane, ma non riuscì a darla alla Honda, che la precedette in tempismo con la presentazione, al 14° Tokyo Motor Show, della Honda CB750.
Nel 1970 iniziarono i primi collaudi della nuova 900 prototipo, che riusciva a sfiorare i 225 Km/h con 95 CV di potenza. I modelli di serie, furono leggermente depotenziati rispetto al prototipo, proprio per garantire al pilota una maggior affidabilità di guida del mezzo: il celeberrimo “Testa nera”, infatti, era superato in potenza solamente dal suo stesso prototipo.
La Kawasaki Z1 900 è stata prodotta in 4 serie: la prima, del 1973, era conosciuta come “Testa nera” per la colorazione del motore ed era disponibile, o con livrea rosso/marrone metallizzato, o giallo canarino/marrone metallizzato; sui fianchetti, invece, era presente la scritta “Double Overhead Camshaft”; la seconda serie, 1974, aveva anche la spia dello stop all’interno del contagiri, il motore era di color alluminio e la grafica del serbatoio mutava, con strisce per tutta la sua lunghezza; la terza serie, 1975, era simile alla precedente, ma le scritte sui fianchetti erano più grandi, era proposta una nuova colorazione blu e marrone metallizzato ed il sistema di lubrificazione automatico per la catena di trasmissione finale venne eliminato, essendosi rivelato inutile in caso di pioggia; l’ultima serie, del 1976, venne dotata di serie del doppio disco anteriore, il motore depotenziato di 1 CV, per via dell’adozione dei carburatori da 26 mm, necessari per non oltrepassare i limiti dati dalle severe norme antinquinamento americane; la corona aveva 2 denti in meno ed i rapporti erano chiaramente allungati; le scritte presenti sui fianchetti indicavano solo il modello (Z 900), le spie di servizio della strumentazione diventavano verticali, il tappo del serbatoio venne dotato di serratura e le colorazioni furono incrementate da una nuova: verde e marrone scuro.
LA TECNICA
Il telaio era il classico doppia culla in tubi d’acciaio con rinforzi in lamiera stampata in prossimità del cannotto di sterzo e nella zona del perno del forcellone. Il basamento del motore, che riusciva a spingere la Z1 oltre il “muro” dei 200 Km/h, era sezionato orizzontalmente: il carter inferiore comprendeva il filtro e la pompa dell’olio. Il propulsore stesso era inoltre dotato del sistema “Positive Crankcase Ventilation” per il riciclo dei vapori dell’olio, che riduceva del 40% l’emissione dei gas tossici. I cilindri erano in lega leggera con canne riportate in ghisa, mentre le sedi delle valvole in metallo sinterizzato, proprio per utilizzare la benzina verde, già obbligatoria negli U.S.A. Dai primissimi anni Settanta del secolo passato, l’albero motore era composto da 9 parti e poggiava su 6 cuscinetti di banco. Per limitare l’ingombro trasversale del motore, i tecnici Kawasaki ricavarono l’ingranaggio della trasmissione primaria direttamente su uno dei volani dell’albero motore.
Quattro erano i carburatori, i classici Mikuni VM da 28 mm e l’avviamento elettrico o a pedale, la frizione multi disco in bagno d’olio ed il cambio a 5 rapporti con ingranaggi sempre in presa e comando sulla sinistra.
Il freno a disco anteriore era da 296 mm, dotato di pinza a singolo pistoncino, non proprio il massimo della funzionalità, ma poteva migliorarsi la sicurezza e la ciclistica della moto adottando un secondo disco come optional, che molte delle Case madri fornivano (come ad esempio il Kit che la Moto Guzzi forniva per la V7 Sport) per migliorare la frenata. Posteriormente la maxi Kawasaki aveva invece un tamburo monocamma da 200 mm.
Diversa era la misura dei cerchi e degli pneumatici: quello anteriore misurava 3,25×19″, mentre il posteriore 4,00×18″.
La linea aggressiva e slanciata, anche se il peso complessivo del mezzo misurava 230 kg, risultava molto elegante per via del parafango anteriore cromato e dalle varie altre cromature dei 4 collettori, degli scarichi e della minuteria.
COME SI COMPORTAVA
L’accattivante Z1 900, contrariamente alle precedenti 2 tempi Mach III e Mach IV, non deluse riguardo al suo comportamento dinamico: molto buone la stabilità e la tenuta di strada, toccava i 212 km/h effettivi ed era bruciante nella sua accelerazione sui 400 m: 12 secondi ed un decimo, la migliore mai realizzata prima da una moto di serie. Lasciava sbalorditi però la dolcezza del suo propulsore, la sua facilità di guida e la sua silenziosità. Senza contare l’estrema e rara comodità per una sport-turer.
Il suo bialbero era tetragono nel sopportare gli sforzi prolungati, la marcia cittadina, le tirate in pista ed il turismo in coppia a lungo raggio.
La distribuzione dei pesi e le quote di ciclistica erano di gran lunga migliori di quelle studiate per la Honda CB 750, tanto da permettere una maggiore maneggevolezza ed un’altrettanto maggiore precisione di traiettoria.
La vista frontale della moto metteva subito in evidenza il suo ampio manubrio “america”, che sicuramente non migliorava la guida alle alte velocità e l’ingombro del suo possente propulsore da quasi 1 litro. Antiestetici, ma obbligatori per la circolazione U.S.A., si presentavano gli indicatori di direzione anteriori e posteriori.
I piccoli difetti immancabili in una macchina costruita dall’uomo erano: la morbidezza delle sospensioni, comode per il turismo, ma non molto performanti per un uso prettamente sportivo: gli ammortizzatori posteriori, ad esempio, non erano all’altezza dei nostri Ceriani, Marzocchi o dei Girling; gli scarichi ed il cavalletto centrale toccavano irrimediabilmente se si esagerava nel piegare in curva; la frenata con un disco solo non era per nulla eccezionale. Quello che poteva gratificare invece uno “smanettone” dei primi anni Settanta dello scorso secolo erano gli pneumatici letteralmente “mangiati” dai moltissimi cavalli a sua disposizione, ma questa non era una nota da enumerarsi tra quelle positive per le sue tasche.
Il centauro è chinato sulla sua rombante moto dagli occhi a mandorla: è lei, la sua fedele Geisha dalla “Testa nera”, che lo ha sempre accompagnato ogni qualvolta un traguardo veniva tagliato, nella vita come nelle più importanti manifestazioni sportive.
Autore: Pier Paolo Fraddosio